Chiedi alla polvere…

Ask the Dust

La scorsa estate mi sono tenuto compagnia sotto l’ombrellone con quello che a tutti gli effetti è un classico della letteratura nordamericana del Novecento: il romanzo Ask the Dust di John Fante.

Quel libro è rimasto chiuso fino a pochi giorni fa nel bagagliaio della mia auto insieme ad un cuscino gonfiabile gonfio, ai miei roller corredati di calzini usati, ad una guida turistica sgualcita con fotografie di com’era la Costa Azzurra trent’anni fa, ad una strana palla – pure quella gonfiata – che sembra il pesce di OpenBSD e ad un frisbee blu.

Oltre ad una modica quantità di sabbia, non tantissima, diciamo quanto basta per rigare le lenti di un paio di occhiali da sole non proprio dei migliori.

Ora quel libro mi è ritornato tra le mani e da quel libro sto recuperando le pagine con l’angolo piegato a segnare i passaggi che mi hanno più colpito. La carta ha subito quella piacevole trasformazione che proviene dalla lunga esposizione al sole, dall’accumulo di sabbia in ogni sua piega e dall’impregnarsi della salsedine lungo i bordi più esterni.

Insomma, tenerlo tra le mani mi riporta indietro di due mesi buoni e mi restituisce un grammo della spensieratezza ferragostana. Ecco uno dei passaggi segnati con un angolo della pagina piegata, con la punta che indica la prima riga del pensiero che avrei voluto ricordare:

Si era sdraiata incrociando le caviglie. Sotto l’orlo del grembiule si intravedeva la cima delle calze arrotolate e qualche centimetro di pelle scura. I suoi capelli, sparsi sul cuscino, sembravano inchiostro uscito da una boccetta. Era stesa su un fianco e mi scrutava con la faccia semiaffondata nel cuscino. Mi sorrise, poi alzò la mano e agitò un dito in segno di rimprovero.
– Vieni qui, Arturo, – mi disse con voce calda.
Feci un gesto di diniego.
– No, grazie. Sto bene dove sono.
Mi voltai a guardar fuori della finestra, sentendomi addosso il suo sguardo. Avrei potuto toccarla, prenderla tra le braccia. Sì, Arturo, bastava che tu ti alzassi e ti stendessi accanto a lei, ma la notte sulla spiaggia, il sonetto stracciato e il telegramma d’amore aleggiavano nella stanza come fantasmi.
– Hai paura? – mi disse.
– Di te? – e scoppiai a ridere.
– E invece sì.
– Non sai quello che dici.
Aprì le braccia e parve che mi si aprisse tutta, ma io non feci che sprofondare ancor più all’interno di me stesso, portando con me la sua immagine tenera e voluttuosa.

Porca vacca, la sabbia è finita tra i tasti del mio portatile…

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