Oggi ho ricevuto la bellezza di 11 telefonate dalla docente di non so quale materia presso un istituto che, per ovvie ragioni, è meglio tacere.
Si è trattato, per la verità, di una sequenza di brevi dialoghi surreali interrotti sempre dalla chiusura improvvisa da parte della malcapitata, sommersa dal caos co(s)mico della classe che cercava inutilmente di domare gridando uno strozzato “Sillenzioooo!” più di quanto le sue logore corde vocali potessero sopportare.
Ora, la conversazione ha raggiunto tali apici di follia che per un paio di volte ho chiesto se si trattasse di uno scherzo.
A parte il fatto che non ho idea di dove abbia scovato il mio numero di cellulare, l’impressione che mi è rimasta addosso per tutto il giorno è stata quella di avere assistito alla mattanza di un vecchio animale e di non avere potuto fare nulla non dico per salvarlo, cosa impossibile, ma quanto meno per risparmiargli un po’ di tutto quell’inutile dolore. Di quell’inutile umiliazione.
Ho provato pena per questo essere umano sicuramente ultratrentenne che chiedeva disperatamente aiuto a ragazzini di sedici anni o giù di lì perché le dicessero cos’è uno slash, dove si scrive l’URL di un sito web e che cos’è Chrome, il tutto mentre l’aula prendeva il sopravvento con un crescendo rossiniano di grida, risate e sfottò beceri da far arrossire Paolo Bonolis.
Ma mi ha fatto anche un po’ rabbia pensare che una persona evidentemente priva di carisma, carente in autocontrollo e pure un poco digiuna delle più elementari nozioni di informatica pretenda di fare l’insegnante, l’ho trovato ingiusto per i ragazzi che le stavano davanti. O attorno. O sopra, alla fine non si capiva più niente, tanto era il casino.
Ho sempre pensato che, nel migliore dei mondi possibili, quello dell’insegnante dovrebbe essere un mestiere e non un lavoro.
Non che le cose andassero meglio, quando avevo sedici anni io. Ma almeno avevo sedici anni. E non dovevo passare il mio tempo al telefono. Ad ascoltare il grido di dolore di una creatura che soccombe, per di più.
A sedici anni avrei avuto l’arroganza o la decenza di dare ad una conversazione del genere il colpo di grazia che si merita: “Guardi che ha sbagliato numero, buona giornata…”.